Alla scoperta di Domenico Savio

È possibile che da una famiglia “normale” esca un santo?

È possibile, pensando alla nostra famiglia, immaginare che qualcuno di noi fra qualche anno sia ricordato come tale?

A una famiglia semplice, che viveva in un paesino sperduto delle colline torinesi, papà fabbro, mamma sarta, è capitato.

Il nome del santo in questione è Domenico Savio, un ragazzino morto a 15 anni (1842-1857), che noi ricordiamo il 6 maggio, la cui vita si è intrecciata nell’ultima parte con quella dell’Oratorio di don Bosco.

Proprio lì ha la possibilità di esplicitare un desiderio che da tempo aveva in cuore.

Un giorno [io don Bosco] gli avevo detto di pensare al regalo che più desiderava: glielo avrei procurato. Rispose subito: – Mi aiuti a farmi santo, è questo il regalo che voglio. Io desidero darmi tutto al Signore, per sempre. Sento un grande desiderio di farmi santo, se non mi faccio santo non faccio niente. Dio mi vuole santo e io devo compiere la sua volontà.” (da “La vita di Domenico Savio”).

Questo è il sogno di un ragazzino di 13 anni.

Nulla di più, nulla di meno.

Chissà quali sono i desideri che passano nel cuore dei nostri figli, dei ragazzi che incrociamo, nei nostri.

Quello di Domenico è tangibile e vivo ancora oggi.

Ripercorrendo la sua vita e i luoghi in cui è vissuto si respira aria di santità.

Una santità semplice, concreta, silenziosa, quotidiana.

Questo è quello che un gruppo di insegnanti, famiglie incluse, dell’Istituto don Bosco hanno percepito qualche settimana fa.

In cammino a piedi tra Morialdo e Mondonio, luoghi dell’infanzia del santo, hanno conosciuto Domenico condividendo momenti di riflessione, confronto, preghiera, chiacchiere in semplicità e allegria. 

Si è scoperto un ragazzo che sapeva essere amico con la sua serena allegria e la mite vivacità.

Era capace di far “tornare su” le conversazioni quando “scivolavano” in basso: “gettava là una battuta, raccontava una favola buffa e tutti ridevano, dimenticando i discorsi maligni”.

Aveva il desiderio (e la capacità) di restituire il bene anche quando assecondare “il male” sarebbe stato più facile.

Viveva in modo semplice e umile la relazione con gli altri con la totale fiducia in un progetto più grande di lui.

Anche Don Bosco, quando incontra Domenico per la prima volta, nota immediatamente questa “stoffa di santità” e gli confida: “Mi pare che in te ci sia una buona stoffa. E a cosa può servire questa stoffa? – risponde Domenico. A fare un bell’abito da regalare al Signore. Dunque io sono la stoffa e lei sia il sarto.”

Don Bosco in Domenico intuisce subito la “pasta” di cui è fatto, o meglio la “stoffa”.

Interessante notare che è proprio il materiale che la mamma di Domenico maneggiava quotidianamente nel suo lavoro di sarta. 

Se don Bosco incontrasse noi oggi, che “pasta” intuirebbe?